Omelia Te Deum 31.12.2017

Omelia Te Deum 31.12.2017

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Omelia Te Deum

31.12.2017

 Quante valutazioni esistono sull’anno appena trascorso? Gli economisti potrebbero affermare si è trattato di un anno positivo per l’Italia data la crescita del PIL, per i metereologi potrebbe essere l’anno più secco degli ultimi due secoli; per gli sportivi un 2017 da dimenticare vista la squalifica della Nazionale ai mondiali mentre per gli operatori della Caritas un momento significativo con la promozione della Prima giornata mondiale dei poveri. Forse gli astronomi considereranno il 2017 anno memorabile visto che è stato catturato per la prima volta il segnale generato dalla fusione di due stelle di neutroni. Una cosa è certa: per i giocatori di azzardo, per quelli del gratta e vinci, delle lotterie e giochi on-line non cambia mai nulla, non vi preoccupate… ogni anno è un anno a perdere[1]. Focalizzando poi l’attenzione su Vasto, non possiamo dimenticare che l’anno si è aperto con un omicidio e si conclude con un accoltellamento. In questi eventi tragici non ci sono vincitori, ci sentiamo tutti deboli e tutti sconfitti. Che pensare? Come interpretare questo tempo? Dobbiamo forse lasciarci vincere dalla tentazione di tristezza? Sicuramente possiamo intuire che fra la nostra gente c’è tanta sete di giustizia, di verità ma credo più di tutto…c’è tanto bisogno di riconciliazione e di pace. E proprio per riprendere nel modo giusto il nostro cammino preghiamo insieme. Da quale prospettiva dunque il cristiano legge il tempo trascorso?

Ognuno di noi questa sera, se vuole convertirsi al Vangelo, dovrà leggere la storia – la propria storia – dalla prospettiva del Vangelo. E alla luce delle parole di Gesù, che riassumono tutta la ricchezza biblica, il tempo è sempre un dono da accogliere come benedizione e come occasione da non sciupare: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!” (Mt 3,2). Un Regno vicino, a portata di mano, in ogni stagione della vita, ma che esige accoglienza e ritorno alla Sorgente del bene. Anche il 2017 è stato “tempo-dono” in cui il Regno si è mostrato a coloro che lo hanno saputo riconoscere e si sono lasciati lavorare dalla Grazia in vista di un ritorno. La Parola che ci viene consegnata anche questa sera sigilla un anno civile, che si chiude nei primi vespri della Solennità della Madre di Dio e che si riapre, anche domani, con lei. Ci affidiamo a lei per ottenere misericordia e ripartiamo con lei per affrontare il futuro.

Una speranza dunque che trascina verso il futuro e che aggredisce la tristezza legata al male. Tornano alla mente le parole dell’Apostolo nella Lettera ai Romani: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (Rm 12,21) e tornano abbinate alle belle immagini della Vergine Maria celebrata nella storia dell’arte. Mi piace qui citare un capolavoro di Sandro Botticelli che ci può aiutare a memorizzare uno stile, si tratta della Madonna del Magnificat (1481) conservata oggi nella Galleria degli Uffizi tra la “Primavera” e la “Nascita di Venere” dello stesso autore. Osservando questa immagine della Madonna è

[1] L’Italia è al 4° posto per volume di perdite su scala nazionale (19 miliardi di dollari) e peggio di noi vi sono solo USA, Cina e Giappone. Con le scommesse si perde sempre visto che un terzo delle entrate del fisco dello Stato italiano proviene dal gioco d’azzardo legalizzato. La maggior parte dei premi, poi, è di piccolo taglio e automaticamente viene rigiocato e, anche quando si vincesse una somma consistente, si rimane sconfitti dalla mania del gioco che toglie la libertà. Se poi considerate che il nostro Abruzzo è la terza Regione in Italia per gioco di azzardo potete intuire l’entità di questa piaga sociale fra la nostra gente.

difficile non rimanere catturati dalla bellezza dei volti, dalla cura degli abiti, dai colori brillanti, dalle ciocche di capelli biondi con riflessi dorati e dalla grazia con la quale viene rappresentata la corona tenuta dagli Angeli sul capo della Vergine. Pur tuttavia, vi è un particolare dell’opera che non è molto comune: Maria non è rappresentata mentre legge un testo ma nell’atto dello scrivere. Ella, nell’opera citata, scrive attingendo da un calamaio il suo Magnificat, l’inno di lode all’Altissimo che l’ha scelta nella sua povertà. Sì, il particolare che forse più fa riflettere è che in questo tondo è proprio la Vergine a scrivere il suo Magnificat con inchiostro su un libro mentre la mano del piccolo Gesù è poggiata sul suo braccio. Gesù e Maria insieme, gli sguardi che si intendono e si cercano in quelle storie che si incrociano per sempre. L’immagine del Botticelli in realtà comunica uno stile molto utile per la nostra celebrazione di fine anno e non solo perché fa contemplare la bellezza di Maria, la Theotokos (Madre di Dio), ma anche perché incoraggia a fare memoria di lode affinché si incida bene nel cuore lo sguardo di Dio su di noi. È tipica della celebrazione di inizio anno la Benedizione sacerdotale detta di Aronne riportata anche nella Prima Lettura, in cui più che porre la attenzione sul nostro sguardo – sempre poco capace di rimanere fisso in Dio – ci si sofferma sull’opposto: “Il Signore rivolga a te il suo volto / e ti conceda pace” (Nm 6,25-26). Se Lui ci guarda possiamo essere nella gioia, se lui rivolge a noi il suo sguardo troveremo la pace. Così come ha posto il suo sguardo sulla Vergine Maria continua a rivolgerlo ancora su di noi o meglio, su chi di noi avverte la propria povertà a conclusione di un anno e comprende che nulla può riempirlo se non Dio; avverte che tutto ciò che il mondo può offrire è paglia se manca la Grazia di Dio, l’amicizia con Lui. Risuonano ancora le parole della Vergine “Ha guardato la tapèinosis (la condizione di povertà) della sua serva” (Lc 1,48). Dunque a conclusione di un anno non fermarti alla tua povertà, a ciò che non è andato bene a ciò che sembra rilanciare solo la tua impotenza: se la povertà si fa preghiera lo sguardo di Dio si rivolge su di te. E questo è sorgente di pace.

Dal Vangelo della Natività secondo Luca, si scorge sempre un concatenarsi di eventi: subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste…appena gli angeli si furono allontanati i pastori dicevano andiamo…dopo averlo visto riferirono…i pastori se ne tornarono…quando furono compiuti gli otto giorni… (Cfr. Lc 2,13-21). Tutti questi passaggi scandiscono il trascorrere del tempo, che appare – forse agli occhi del lettore distratto – come un susseguirsi casuale di incontri; l’autore sacro però ci sta dicendo che proprio ciò che sembra scorrere quasi in modo frenetico, appartiene ad un progetto più ampio, è insomma carico di senso. E non è forse anche questo un messaggio da riscoprire a conclusione di un anno civile, mentre insieme speriamo di affrontare meglio il 2018? Non ci fa bene forse riconoscere che il Vangelo non è solo la storia di qualcun altro ma è una testo che parla a noi e parla di noi? Non è altrettanto urgente per questa generazione dell’immagine – di cui facciamo parte ormai anche noi adulti – abituata a far scorrere senza riflettere messaggi e foto su uno schermo, una battuta di arresto sul valore delle scelte che facciamo? Non è forse assolutamente urgente liberare il cuore da numero di “mi piace” che contiamo su una pagina Facebook e ragionare un po’ di più su ciò che ci accade? Il rischio è quello di rimanere in attesa delle cose o di stare a guardare la vita degli altri senza leggere la nostra storia con la Sapienza dall’alto, quella Sapienza che vorrebbe educare la nostra vita ad interrogarsi su una direzione da prendere per il nostro bene. Forse oggi tutti abbiamo più bisogno di non limitarci a far scorrere fatti o messaggi su uno schermo, ma di comprendere che la nostra vita va vissuta in relazione con Colui che custodisce il senso delle nostre gioie e dei nostri dolori. Le immagini possono scorrere anche velocemente su uno schermo, ma la nostra vita non può andarsene distratta e così velocemente! Noi non siamo fatti per scorrere e scivolare nel nulla ma per lasciarci incontrare da Dio, quel Dio che ci parla nel quotidiano dei nostri giorni e che vorrebbe che imparassimo tutti a guardarci negli occhi, a guardarci come fratelli.

Ma tutto questo in vista di quale obiettivo? Perché mai dovremmo distinguerci dagli altri? Forse semplicemente per vivere bene, per vivere umanamente.

Non si può fare a meno di notare, a tal proposito, che le parole di Paolo nella Lettera ai Galati sono sempre attuali: “non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede” (Gal 4,7). Se credi nella vita come vocazione, lo sguardo di Dio non è quello del padrone o del controllore, ma quello di un padre che spera per il figlio, che questo figlio riesca bene nella vita. C’è un Padre che non può che rallegrarsi ogni qual volta il figlio rimane soddisfatto. Dio è, perciò, attento a segnalarci ogni cosa che ci rende schiavi mostrandoci fino in fondo la bruttezza del male, di quello stesso male che si scaraventò contro Gesù, su quel Figlio che non venne accolto proprio per il suo indicare una luce nelle tenebre. Molti vorrebbero rassegnarsi alle tenebre, molti si abituano alle tenebre e non avvertono più il disagio del peccato nella loro vita. Quale sventura non avvertire più il fastidio per il male che si insidia in noi, quale sfortuna l’anestetizzarsi al male che arrechiamo agli altri. Quale sciocchezza accarezzare il male affezionandosi al ruolo della vittima. Noi non possiamo arrenderci ad una logica egoistica e nemmeno vogliamo liquidare Dio perché ci ritroviamo – e può succedere – a soffrire ingiustamente. Troppo comodo e troppo inutile: nel cuore di ognuno di noi c’è già una sete di infinito e di eterno. Noi non ci rassegniamo a credere che l’uomo non possa essere migliore, non ci rassegniamo a credere che l’egoismo sia la via della felicità. Noi siamo già figli di Dio eppure non ancora lo diventiamo pienamente con umiltà. Diveniamo figli riconoscendoci fratelli tra noi; diveniamo figli fuggendo le mille schiavitù che ogni giorno vorrebbero tarparci le ali; diveniamo figli riconoscendo che siamo fatti per la pace che custodisce la vita. Lo diventiamo quando ammettiamo che la responsabilità costruisce e siamo capaci di riconoscere davvero chi ci è amico, chi ci è accanto per il nostro bene e non per approfittare di noi. Sì, perché occorre da parte nostra decidere da chi imparare l’arte della vita. Così come negli sguardi dell’opera del Botticelli, Gesù impara da Maria e Maria impara da Gesù.

C’è una eredità che non è appiattita qui sulla terra, che non si consuma immediatamente, c’è un senso che non comprendiamo totalmente qui ma che si dispiegherà quando saremo in cielo. C’è una “eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce” (1 Pt 1,4) secondo le parole dell’Apostolo Pietro! Iniziamo questo nuovo anno lasciando una eredità diversa: Cosa ho lasciato in questo 2017 agli altri? Solo problemi oppure ho acceso passione per qualcosa di bello e di vero? Quale eredità voglio lasciare in questo 2018 e per che cosa voglio impegnarmi con la Grazia di Dio? Avverto in me questa passione per un compimento che potrà realizzarsi solo in Dio, oppure perdo la speranza solo perché non ho ancora visto qui la realizzazione delle mie aspettative?

Alimenta la tua speranza senza fissarti sul male compiuto o ricevuto, ricomincia con semplicità senza paralizzarti nel tuo orgoglio del “non me lo dovevano fare”. Sappi rialzarti perché Dio conosce il tuo cuore e guida solo chi vive da agnello e non da lupo, perché egli è Pastore di agnelli e mai di lupi. Non temere, questo 2018 è tempo di grazia anche per te. Chiudo con una poesia di Antonino Massimo Rugolo: “L’amore guardò il tempo e rise”:

E l’amore guardò il tempo e rise.

Un sorriso lieve come un sospiro,

come l’ironia di un batter di ciglio,

come il sussurro di una verità scontata.

Perché sapeva di non averne bisogno.

Perché sapeva l’infinita potenza del cuore

e la sua poesia e la magia di un universo perfetto,

al di là dei limiti del tempo e dello spazio.

E le ragioni dell’uomo, fragile come un pulcino,

smarrito come un uccello,

cannibale come un animale da preda.

Perché conosceva la tenerezza di una madre,

l’incanto di un bacio, il lampo di un incontro.

Poi finse di morire per un giorno,

nella commedia della vita,

nell’eterno gioco della paura,

nascosto, con il pudore della sofferenza,

con la rabbia della carne,

con il desiderio di una carezza.

Ma era là, beffardo, testardo, vivo.

E rifiorì alla sera,

senza leggi da rispettare,

come un Dio che dispone, sicuro di sé,

bello come la scoperta, profumato come la luna.

Ma poi si addormentò in un angolo di cuore

per un tempo che non esisteva

e il tempo cercò di prevalere,

nel grigio di un’assenza senza musica, senza colori.

E sbriciolò le ore nell’attesa,

nel tormento per dimenticare il suo viso, la sua verità.

Ma l’amore negato, offeso,

fuggì senza allontanarsi,

ritornò senza essere partito,

perché la memoria potesse ricordare

e le parole avessero un senso

e i gesti una vita e i fiori un profumo

e la luna una magia.

Perché l’emozione bruciasse il tempo e le delusioni,

perché la danza dei sogni fosse poesia.

Così mentre il tempo moriva, restava l’amore.

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  1. Una riflessione intensa, profonda, commovente, che se messa in pratica, aprirebbe il cuore alla speranza e alla fiducia in un mondo migliore, impregnato invece di un egoismo senza limiti.

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