TE DEUM del 31/12/2015

TE DEUM del 31/12/2015

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Se in ogni comunità parrocchiale è tradizione salutare l’anno che finisce con un momento di preghiera, nella nostra comunità di Santa Maria Maggiore l’appuntamento ha assunto particolare rilevanza per il fatto che il canto del Te Deum, con la sua originale melodia, segnò i festeggiamenti del 1707 per il ritorno del marchese don Cesare Michelangelo d’Avalos nei suoi feudi, dopo sette anni di esilio a Vienna. A suscitare poi una maggiore attrazione fu l’aggiunta della predica voluta dal benefattore lombardo Giovanni Barbisio, che dal 1792 lasciò alla chiesa un canone annuo di 17 ducati per sostenere le spese. E da allora la nostra gente si ritrova anno dopo anno, per ringraziare Dio non solo con le parole ma con il canto, segno di letizia e di gratuità. Nella tradizione biblica, ogni evento importante va preparato mai subìto, preannunciato e mai abbandonato a se stesso; ecco perché nel pomeriggio i 365 tocchi del campanone hanno voluto ricordare la convocazione. Sì, il tempo scorre inesorabile ma vi sono dei passaggi critici nella storia di un uomo e di una società che richiedono un accompagnamento comunitario, un rito, una pausa, un momento di riflessione: la conclusione di un anno civile è uno di questi. Si prende consapevolezza che qualcosa è passato definitivamente e non tornerà mai più. Rispetto alla paura del “Sed fugit interea fugit irreparabile tempus” (Virgilio, Georgiche, III, 284), l’uomo religioso cerca semplicemente qualcosa che lo aiuti a vincere le sue paure, qualcosa che vada oltre l’effimero visibile, l’uomo credente invece si affida a Qualcuno che gli viene incontro e che merita la sua fiducia: Gesù Cristo. Si entra, così, in un nuovo anno decidendo se affidarsi al caso o al Dio che si è rivelato che è venuto ad abitare e redimere il tempo. L’uomo non si limita a subire questo scorrere di attimi ma celebra i passaggi della vita. Li celebra inserendosi in una dinamica di Grazia, lodando il suo Signore per quanto ricevuto e facendo un esame di coscienza per tutto ciò che non ha reso gloria a Dio , rovinando il capolavoro che è la vita dell’uomo. Gratitudine e confessione. Riconoscenza e Conversione. L’uomo si differenzia dall’universo animale per queste sue proprietà.

Un motivo importante per cui ringraziare è l’esserci. Siamo qui, e questo è un dono perché Dio ci ha amati, ci ha voluti e ci ha lasciati sulla terra per una missione da compiere. Un compito per ciascuno, una consegna fatta a noi e solo a noi inseriti in una relazione personale con Dio. Se siamo qui è perché Dio ci ha dato fiducia. Se non riconosciamo la presenza viva del Signore nella nostra storia tutto rimane banale. Con le parole della mistica operaia Madeleine Delbrêl ripeto: “Tu vivevi e io non ne sapevo niente. Avevi fatto il mio cuore a tua misura, la mia vita per durare quanto te e poiché non eri presente, il mondo intero mi appariva piccolo e stupido e il destino degli uomini insulso e cattivo. Ma quando ho saputo che vivevi, ti ho ringraziato di avermi fatto vivere, ti ho ringraziato per la vita del mondo intero”. Forse non sappiamo ringraziare a sufficienza il buon Dio per questo essersi impastato con noi, unito per sempre a noi.

Per tutte le volte che abbiamo gioito dei doni di Dio, per tutte le volte che è trasparso in noi un seppure debole riflesso divino, per tutte le volte che qualcuno ha benedetto il Signore per aver ricevuto un gesto di amore, per quelle volte che il nostro lavoro di squadra nella società, nella parrocchia ha seminato il Regno di Dio benediciamo l’Artefice di ogni dono, così come canteremo fra poco: “Per singulos dies benedìcimus te/ et laudamus nomen tuum in saeculum”.

Certamente vi saranno stati dei “tradimenti” al sogno di Dio su di noi. Tutti abbiamo una vocazione, esperimentiamo un essere chiamati alla vita e tutti ci rendiamo conto di non bastare a noi stessi. La vita è una chiamata ad uscire da se stessi, eppure ci rendiamo conto dell’incapacità di essere fino in fondo noi stessi. Oggi si parla di un uomo fuggitivo, dislocato e spaesato. Eppure il cristiano segnato da queste stesse fragilità è chiamato a fermarsi per riconoscere la sua sete di felicità e abbandonare le vie deludenti delle accelerate piste di piacere a buon mercato. Insomma il cristiano in questa sera può riconoscere la propria caduta e confidare in quella Parola che lo ricrea ricordandogli la chiamata ad abitare dentro la fatica della storia come sale e lievito nella pasta. Martin Buber scriveva che “è essenziale una conoscenza delle proprie qualità e dei propri limiti, ma soprattutto della propria tendenza essenziale; in ciascuno c’è qualcosa di prezioso che non c’è in nessun altro”. L’essenziale porta a dirigere le proprie forze dall’occasionale al necessario, dal relativo all’assoluto. Riconoscendo i propri “tradimenti”, con la grazia di Dio si può rimettere ordine nella propria anima. Sappiamo inoltre che nessuna unificazione dell’anima e del cuore è definitiva, occorre un costante atteggiamento di “vigilanza serena”. In questa direzione va anche l’esame di coscienza da fare non su quello che avrebbero potuto fare gli altri, ma su ciò che dovevo fare io; e poi non semplicemente su ciò che abbiamo realizzato, ma sul “cuore” che abbiamo messo nelle mani. Ogni vero cambiamento inizia da se stessi, dal prendere in considerazione ciò che si deve fare per il bene, senza concentrarsi però su se stessi “per mettersi in vetrina”. Come sarà possibile cominciare da se stessi e nello stesso tempo dimenticare se stessi? Fondamentale è chiedersi: “A che scopo sto facendo questo?”. E la risposta dovrebbe essere: “Non lo faccio per me stesso”. Si tratta di cominciare da se stessi, ma non di finire con se stessi; di prendersi come punto di partenza, ma non come meta; di conoscersi ma non di preoccuparsi troppo di sé. (Cfr. Nico dal Molin, Autorevolezza: frutto di un cuore unificato in Vocazioni, n.6/2014, p.5).

Per quelle volte che non siamo stati capaci in questo anno di andare verso il nostro meglio, per tutte quelle volte che non abbiamo creduto nella nostra vocazione e che ci siamo adagiati, per tutte le volte che abbiamo giocato nel catturare l’attenzione su noi pensando di bastare a noi stessi, per quelle volte che abbiamo dimenticato la vera sorgente che è Cristo, invochiamo la Misericordia e cantiamo nel Te Deum “Miserere nostri, Domine, Miserere nostri”.

La gratitudine e la misericordia ci restituiscono lucidità per affrontare il 2016 ormai alle porte. La fiducia e la speranza devono essere immense nell’anno in cui Papa Francesco ha voluto far aprire le porte sante simbolo delle porte del cuore da spalancare. Tanti sarebbero i temi che sembrano affacciarsi come urgenze. Tante sarebbero le considerazioni da farsi, tanti i ricordi belli e brutti di questi mesi trascorsi nella nostra società italiana, nella nostra cittadina e nelle nostre comunità parrocchiali. Ritengo però necessario fissare l’attenzione su alcuni temi forse più urgenti: la famiglia, il lavoro e l’integrazione.

Per quanto l’uomo voglia gestire la propria vita autonomamente, nessuno può fare a meno di una famiglia. Tutti proveniamo da una famiglia e, anche chi fosse stato abbandonato da piccolo, conserva in sé una nostalgia di ciò che è famiglia, di quel giardino in cui Dio ama abitare e rendere visibile il suo amore. Cosa vediamo oggi nelle nostre famiglie? All’inizio vi sono delle grandi aspettative, tanti sogni di bellezza, notiamo grande cura nell’accompagnamento dei bambini, tante energie spese per la cura della salute fisica dei figli ma forse poca attenzione alla famiglia in quanto famiglia. Anziché però lamentarci di ciò che lo stato, la società, la chiesa dovrebbero fare è necessario lavorare nel piccolo per ascoltare quanto rende davvero felici, quali siano i modelli delle nostre famiglie, quali siano le ragioni che dovrebbero tenere insieme i coniugi. Cosa ci si aspetta quando si mette su famiglia oggi? Onestamente, quando si è concentrati su se stessi non si può andare avanti, nemmeno se si punta sul proprio amore si può costruire solidamente: qualcun altro va convocato nelle mura domestiche! La nostra umanità è ferita, vulnerabile e segnata da messaggi che spingono all’edonismo, al pensare solo a se stessi e alla realizzazione del “mio” progetto. A questa umanità la Chiesa vuole farsi prossimo, “con la parola incoraggiante dell’amore che com-patisce e con-sola: un amore empatico, capace di entrare nel pathos (sofferenza) e nella solatio (solitudine) dell’altro, condividerla e sanarla. Non c’è amore senza compassione e consolazione. Il mondo soffre di un’ipertrofia di amore emotivo, meramente sentimentale, e di un’atrofia di un amore oblativo, che prende l’iniziativa, si coinvolge, si china, cura le ferite, riconcilia e apre alla speranza…” (Mauro Cozzoli, La Porta Aperta, supplemento a L’Avvenire del 6/12/2015).

La famiglia esposta a mille urti oggi può contare sulla vicinanza della Chiesa ma deve anch’essa puntare sulla gioia del piccolo passo condiviso, della costruzione nel quotidiano, della fuga dalla tentazione di una vita alternativa priva di responsabilità. Quando si fugge dalla fatica della diversità – perché l’uomo e la donna rimangono inevitabilmente diversi! – quando ci si appoggia ad una relazione senza troppe pretese si sta scegliendo una schiavitù, non volendo ammettere che è impegnativo vivere la libertà nella responsabilità…spesso si sceglie di tornare alla schiavitù dell’essere ingabbiati da tanti fuochi di artificio, apparentemente belli ma che durano solo pochi istanti!…il fascino del momento. Oggi si guarda al momento, all’istante e non si riesce a scrutare l’orizzonte della gioia e della solidità che pro-vengono da un percorso certamente impegnativo ma gratificante. Le famiglie non reggono quando si ritorna alla schiavitù del proprio io. Si racconta che per il Signore fu più facile togliere gli Israeliti dall’Egitto che togliere l’Egitto dal cuore degli israeliti. Nel nostro cuore si annida la nostalgia della schiavitù, perché apparentemente più rassicurante, più della libertà che è molto più rischiosa perché convoca la responsabilità. Come ci si educa, nelle nostre famiglie, alla responsabilità? Come i coniugi sanno indicarsi a vicenda la gioia di un cammino condiviso per tutta la vita? Quanto tempo le coppie sanno dedicarsi per ricordare le ragioni profonde del loro stare insieme, che li ha fatti crescere in umanità? Quanto crediamo che Dio santifica nel quotidiano e che questa santificazione è fonte di gioia e di speranza per le famiglie?

Un altro tema con il quale ci scontriamo ogni giorno è quello del lavoro che non c’è. Nonostante i segnali di ripresa troppe sono le famiglie in cui non si riesce ad avere un minimo di autonomia e stabilità economica. Non è mio compito quello di fare una analisi sociologica sull’emergenza lavoro ma quella di dare voce al disagio di tutti coloro che hanno tanta dignità e vorrebbero camminare con le proprie gambe. Chi di noi non vive o non ha vissuto nella propria famiglia questo dramma? Chi di noi non ha visto andare fuori un familiare perché scoraggiato dalle tante promesse senza risultato? Il fenomeno è molto diffuso anche nella nostra città e molti giovani giustamente hanno organizzato la loro vita altrove nella consapevolezza di non poter costruire un futuro nelle vicinanze. Eppure quanto lavoro ci sarebbe da organizzare? Quanta fantasia ancora rimane soffocata incapace di potenziare la cultura, l’arte e la bellezza nascosta nella nostra Città? Quanto si investe sull’effimero e il passeggero senza un vero e proprio progetto per il futuro a lungo raggio? Quanto lavoro viene fatto per suscitare lavoro davvero utile alla società che non segua la logica del consumo immediato, ma che possa creare uno stile di vita umanamente più alto, ecosostenibile?

Il terzo problema è relativo alla integrazione di ogni genere ma soprattutto dalla prospettiva di noi cristiani, chiamati ad essere soggetto. Molte volte ci si lamenta della mancanza di integrazione di chi viene da lontano ma poco si fa per proporre in maniera ragionata la propria cultura. Le discussioni cicliche sul Crocifisso, sul Presepe, sui canti natalizi, denotano una nostra mancanza di argomenti visto lo stile polemico che spesso accendiamo. Il dialogo è fondato su una identità e spesso chi non sa trovare argomenti usa la polemica per servirsi degli altri a proprio vantaggio o per generare violenza. È arrivato il momento di conoscere e presentare la nostra cultura, dare ragione della nostra fede, annunciare la bellezza di quel Dio che rispetta sempre la coscienza dell’uomo e testimoniare le ricchezza che nei secoli la cultura in Europa ha raggiunto anche grazie alla matrice ebraico cristiana: il principio persona e il principio solidarietà. È proprio dall’incontro e dallo scontro tra la matrice biblica e il pensiero in occidente che si è consolidato il concetto della persona umana con la sua dignità unica e irripetibile, che merita rispetto nella sua vita e nel suo pensiero, che può esprimersi attraverso le sue diverse dimensioni (compresa quella religiosa). E come non ricordare il principio solidarietà, vincolante per una convivenza civile basata sull’etica della responsabilità declinata sia in senso laico che religioso? (Cfr. Bruno Forte, Intervista per il Mattino dell’8 dicembre 2015). Forse il primo a dover fare uno sforzo di integrazione è l’uomo occidentale, forse proprio noi dobbiamo riscoprire e apprezzare la bellezza e la profondità del pensiero e della fede cristiana per poter dialogare con serenità e accogliere la ricchezza e la diversità dell’altro. Molto si è demolito e disprezzato in passato, ma oggi forse siamo ancora in tempo per riconoscere il patrimonio ereditato dai nostri padri quel patrimonio che non va difeso solo nella esteriorità o solo per paura ma presentato con ragionevolezza. Spesso in Europa e anche in Italia si è confusa la laicità con il laicismo; la laicità è un valore che tutela l’autonomia del mondano e la dignità della persona che così può esprimere il proprio pensiero e la propria religiosità; il laicismo invece è pregiudizio, disconoscimento dell’altro a cui viene impedito di esprimere un rapporto con il trascendente. Oggi, noi per primi dobbiamo riscoprire e rispettare quel patrimonio che vogliamo sia rispettato dagli altri. Ogni atto di vandalismo nella città, ogni sfregio fatto ad un’opera d’arte, ogni soldo tolto alla cultura e alla ricerca, ogni gesto di indifferenza, ogni volta che non si sostiene l’educazione e la preparazione di una coscienza critica si rende più lontana l’integrazione, meno possibile il dialogo e più facile la paura. L’integrazione parte da noi, dal nostro essere convinti di un patrimonio che esige conoscenza e rispetto. Chiedendo perdono per tutte le volte che non siamo stati capaci di interessarci della bellezza della nostra fede e della nostra cultura vogliamo ricominciare in questo anno coltivando la passione per quanto abbiamo ereditato per poter così affrontare il futuro donando il nostro contributo alla società e alla chiesa.

Il Te Deum ci ricorda che esiste un’ultima ora e una pienezza del tempo. Questa è la nostra ora: l’ora in cui dare il nostro contributo accogliendo la pienezza che è Cristo. Solo così vinceremo la globalizzazione dell’indifferenza, l’indifferenza verso Dio che poi porta ad indifferenza verso l’uomo e verso il creato.

Abbiamo bisogno della misericordia di Dio per dare misericordia, di quella misericordia che è “scandalo per la giustizia, follia per l’intelligenza, consolazione per noi debitori. Il debito di esistere, il debito di essere amati si paga solo con la misericordia” (P. Ermes Ronchi). Invocando la misericordia facciamo strumenti nelle mani buone di Dio. Concludo riconsegnandovi le parole attribuite al Beato Oscar Arnulfo Romero (ma pronunciate la prima volta dal Cardinale John Dearden):

 

Noi piantiamo semi che un giorno nasceranno.

Noi innaffiamo semi già piantati, sapendo che altri li custodiranno.

Mettiamo le basi di qualcosa che si svilupperà.

Mettiamo il lievito che moltiplicherà le nostre capacità.

Non possiamo fare tutto,

però dà un senso di liberazione l’iniziarlo.

Ci dà la forza di fare qualcosa e di farlo bene.

Può rimanere incompleto, però è un inizio, il passo di un cammino.

Una opportunità perché la grazia di Dio entri

e faccia il resto.

Può darsi che mai vedremo il suo compimento,

ma questa è la differenza tra il capomastro e il manovale.

Siamo manovali, non capomastri,

servitori, non messia.

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